21 febbraio 2014

Facebook compera WhatsApp

1997: inizia a lavorare a Yahoo, uno dei più famosi motori di ricerca dell'epoca e che macina profitti da favola, tale signor Jan Koum, assunto da altro tale signor Brian Acton. Entrambi sono pieni di entusiasmo e belle speranze.

2007: dopo dieci anni passati a vendere, sempre con più difficoltà, spazi pubblicitari per Yahoo, che schiacciato dalla concorrenza di Google registra perdite colossali, Brian e Jan lasciano il loro vecchio posto di lavoro.
Acton prova a farsi assumere da Facebook e da Twitter, ma niente. Dopo un bel periodo a spasso i due decidono così di mettersi in proprio, e di creare un'applicazione di messaggistica per smartphone. L'idea è quella di consentire l'invio tra telefoni di un numero infinito di messaggi e foto a un prezzo bassissimo (1 € all'anno).

2014: in un giorno di febbraio tal Mark Zuckerberg, ventinovenne creatore di Facebook, che ha già speso in cause legali tanti milioni di dollari quanti ve ne potrebbe far perdere in una vita uno strapagato manager finanziario, decide di togliersi uno sfizio e compera WhatsApp.
Non ci sarebbe niente da dire, se questa non fosse la creazione del tipo che non ha ritenuto idoneo a lavorare per lui, e se non la avesse pagata 19 miliardi di dollari. Già... 19.000.000.000 dollaroni (13,82 miliardi di Euro al cambio attuale).

Se avesse deciso di comperarsi una casa automobilistica o un paio di grosse multinazionali del mondo dell'elettronica avrebbe speso meno. Tanto per farsi un'idea il PIL di paesi come l'Albania o l'Islanda è prossimo ai 13 miliardi di dollari, quello dell'Armenia si avvicina ai 18...

È un dato di fatto che WhatsApp abbia 450 milioni di utenti attivi e che sia riuscito a demolire una delle fonti di guadagno delle compagnie di telecomunicazioni (gli SMS), ma è anche vero che ogni utenza (e quindi ogni numero di cellulare) è venuta a costare al “povero” Mark qualcosa come 30,7 €.

A tale cifra i tempi per rientrare del mero investimento sarebbero superiori ai dieci anni, anche ipotizzando che il data center, i servizi di connessione e i 50 dipendenti necessari a far funzionare la creazione di Koum & Acton vengano a costare zero (impossibile), e che un miliardo e mezzo di persone iniziasse a usare a breve questo servizio di messaggistica (le utenze dovrebbero cioè triplicare – molto difficile anche se non impossibile). Rimanere fuori di qualche migliaio di Euro per dieci anni non è la fine del mondo, ma esserlo anche “solo” per un paio di miliardi qualche problemino può anche provocarlo, soprattutto se progressivamente il popolo del web decidesse di migrare verso qualche altra piattaforma social (molto difficile ma ancora una volta non impossibile).

Ciò che è passato per la testa a molti, nel momento stesso in cui hanno appreso la notizia, a parte un sentito invito ad andarsene in un certo posto ai due signori che proclamavano a destra e a manca che mai avrebbero ceduto la loro applicazione a gente che l'avrebbe usata a scopi pubblicitari (o peggio), è stato immaginare cosa ne voglia fare realmente Zuckerberg.

Facebook offre un servizio ai suoi utenti: una piattaforma di condivisione di contenuti (foto, testi, link, ecc.), o almeno così sarebbe in un mondo perfetto, se tutto Facebook fosse ospitato in un server domestico alloggiato nel garage di un sedicenne idealista, o in un computer di qualche università. Nel mondo reale un social network di dimensioni mastodontiche (il traguardo del miliardo di iscritti è stato superato nell'ottobre del 2012) necessita di colossali ed energivori data center, il cui mantenimento costa milioni e milioni di dollari, senza contare il danaro da spendere per i servizi di connessione e per pagare gli sviluppatori, i sistemisti, i tecnici e tutto il mezzo esercito di persone che vi ruotano attorno.

Pertanto sono gli utenti che, paradossalmente, devono “ricambiare” il servizio reso, e in misura maggiore (Facebook Inc. non persegue il semplice pareggio del bilancio), come? Semplice... ogni foto, ogni conversazione effettuata sulla chat, ogni aggiornamento, condivisione o dato personale raccolto sia in via esplicita che indiretta (ogni tanto vengono poste agli utenti domande del tipo “Dove hai studiato?”, “Hai mai guardato questo o quel film? Ti è piaciuto?”, ogni clic e tutte le ricerche di persone conosciute vengono utilizzate al fine di creare un gigantesco database i cui dati (non necessariamente tutti, non converrebbe nemmeno a Facebook) sono ceduti a scopi pubblicitari, oppure utilizzati per meglio indirizzare i messaggi promozionali da far comparire sulle pagine degli utenti.

Avere la possibilità di aggiungere a questo database i numeri telefonici di 450 milioni di persone aprirà al colosso di Menlo Park la possibilità di raggiungere in maniera mirata una moltitudine di potenziali clienti: meno privacy per loro, maggiori profitti per Facebook.

Ma se è vero che solo il tempo potrà dire se aver speso 19 miliardi di dollari per WhatsApp si rivelerà una mossa vincente o un colossale buco nell'acqua, ciò che invece è certo è che man mano che quel database acquista valore ai fini commerciali, diviene anche sempre più pericoloso per gli utenti: più diventa preciso, composto di dati dettagliati e personali e maggiormente si presta ad essere utilizzato a danno degli effettivi proprietari di quei dati, e per un periodo di tempo indefinito, altro che diritto all'oblio.  

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